Claudio Cecchetto: «Le 10 sedute mai pagate con uno psicologo milanese. A Fiorello dissi di svecchiarsi»
Il produttore ed ex dj: «Mi ha costruito l’ambiente della chiesa. Il mio scopritore? Mike Bongiorno. Quando venne a cercarmi riuscivo solo a pensare: ho davanti Mike»
Claudio Cecchetto ha creato tormentoni, aziende, mode e uomini. Ha scoperto e lanciato fra gli altri, Fiorello, Gerry Scotti, Fabio Volo, Amadeus, Leonardo Pieraccioni, Jovanotti. Ha fondato due radio, Deejay e Capital, ed è stato il primo a portare la radio in tv e la new wave in Italia, vale a dire i Duran Duran, i Depeche Mode. «Avevo scovato un negozietto a Londra di una sola vetrina», racconta, «c’era un commesso strano, ci andavo ogni due settimane, prendevo un vinile e gli chiedevo: is this new wave? Lo compravo, lo trasmettevo e solo dopo le case discografiche lo pubblicavano in Italia. Quel commesso, scoprirò, era Boy George». Cecchetto ha «inventato» persino un’isola, Ibiza, grazie a People from Ibiza, hit europea dell’estate 1984: «Prima, dall’Italia c’era un volo a settimana. Dopo, ne fecero uno al giorno». Ricorda: «Vidi Sandy Marton in discoteca e pensai: questo piacerà alle donne perché è così bello che piace anche a me. Allora l’ho chiamato alla consolle, ho detto “vi presento un amico”, Sandy è uscito e ho sentito un “oooh”: io ero scomparso e c’era solo lui. Non aveva mai cantato, lo costrinsi a scrivere, da zero, un brano. Mi parlava sempre di Ibiza e gli dissi: se ci fai un pezzo, la gente penserà che è il paradiso e che lì sono tutti come te». Cecchetto ha condotto tre edizioni di Sanremo, la prima nell’80, a soli 28 anni. E aveva inventato il tormentone del 1981, il Gioca Jouer. A 40 anni di distanza, un evergreen.
Come le venne in mente quel motivo coi passi incorporati?
«Guardando alla tv un mio balletto e un po’ vergognandomene. Però pensai che, mentre ballavo, mi ero divertito a mimare le indicazioni del coreografo. L’idea scattò così. Immaginai movimenti semplici e intuitivi: dormire, salutare, nuotare, sciare… Non serve che nessuno te lo insegni, contiene già le istruzioni».
Ne uscirono versioni in tutte le lingue.
«Il merito va anche a Gianni Ravera, che fece del Gioca Jouer la sigla di Sanremo. La videro venti milioni di persone e, non essendo io in gara, non rischiai neanche l’eliminazione».
«Volevano svecchiare, io avevo condotto la Hit Parade di Discoring e Ravera mi disse: tu parli veloce e io riesco a recuperare due canzoni a sera».
Nell’anno in cui è nato lei, il 1952, l’Italia cantava «Vola Colomba». Lei come è diventato il portabandiera della nuova musica?
«Papà mi comprò la prima radio a 5 anni e a 10 il mangiadischi. Da adolescente, scattò la passione per i Beatles, cominciavano i Pink Floyd e i Genesis, cose che in radio si trovavano solo ad Alto Gradimento e Supersonic. Spendevo tutto quello che avevo in musica d’importazione. Mother dei Pink Floyd lo presi colpito dalla cover con la mucca: mi ricordava le estati a Ceggia, il paesino veneto dove sono nato».
Famiglia contadina, la sua.
«Mio padre era un pochettino più ribelle dei fratelli, non voleva coltivare la terra, gli piaceva viaggiare e venimmo a Milano dove avrebbe fatto il camionista e poi il tassista».
Com’era la Milano della sua infanzia?
«Ne ho conosciuto soprattutto gli oratori: gli unici posti dove potessi divertirmi. L’ambiente della chiesa mi ha costruito. C’è stato un momento, a sette o otto anni, in cui chiesi come diventare missionario. E ho fatto il capo dei chierichetti, saggiando le invidie nel mondo del lavoro: eravamo tre e, come fui nominato, gli altri due se ne andarono. Chiesi al prete che succedeva. E lui: niente, i prossimi che arrivano sapranno subito che il capo sei tu».
Le è capitato anche nel lavoro?
«Già nella prima radio in cui ho lavorato, a Radio Milano International. Era nata, come tutte quelle libere, in un appartamento, improvvisata, poi era venuta l’ora di darle un’organizzazione, ma è difficile se fino a un attimo prima si è tutti uguali. Dovetti andarmene».
Primi anni ’70: nelle radio private si lavorava gratis e si era pure fuorilegge.
«Non facevamo niente di male: mettevamo musica, mica davamo indicazioni per fare rapine. Quando arrivavano i carabinieri a sequestrare i ripetitori, erano ragazzi come noi, ci riconoscevano, erano dispiaciuti».
Come comincia a fare il disc jockey?
«Il commesso di un negozio di dischi mi passò il suo lavoro alla discoteca Pink Elephant. Mi sembrò un miracolo, anche se mettevo la musica che piaceva a me solo la domenica pomeriggio e la sera dovevo andare di Fred Bongusto e Peppino di Capri».
Prima ha detto che spendeva tutti i soldi in dischi, da dove arrivavano i soldi?
«Lavoretti: ho scaricato casse d’acqua, fatto il vetrinista. All’università, a Scienze delle preparazioni alimentari, pure scelta col fiuto da talent scout, dicevo ai prof: non diventerò mai alimentarista, a me piace la musica, ma se non studio, mio padre mi manda a lavorare. Poi, nacquero le radio libere e mollai gli studi».
Suo padre come reagì?
«Non ci siamo parlati per anni, dovetti uscire di casa. Lui e mamma non sono venuti nemmeno al mio primo matrimonio. Mio padre mi ha chiamato solo al secondo Sanremo. Dopo, ci siamo voluti più bene di prima. Oggi siamo rimasti solo io e mia sorella, che è psicologa. Io le dico: facciamo lo stesso lavoro, tu pensi a quelli che stanno male, poi, quando stanno bene, io penso a farli divertire».
Lei è mai stato dallo psicologo?
«Quando uscii di casa, nel ’75. La mia fidanzata mi tradì col mio migliore amico, io mi trovai solo e senza un tetto e pensavo: che cavolo ci sto a fare a questo mondo? Feci dieci sedute, mi sentii guarito e scomparvi senza pagare. Anni dopo, andai a cercare lo psicologo per ringraziarlo e saldare, ma non mi ricordavo più il nome, andai nella sua strada e non trovai il portone. So che scriveva sul Corriere della Sera, curava con l’ipnosi. Vorrei ritrovarlo: mi salvò dal vuoto senza chiedermi mai una lira».
A 26 anni era già sposato e poco dopo i 30 già separato.
«Mi sono perso per il lavoro, magari stavo tanto fuori casa e le tentazioni non aiutano».
Con Mapi Danna sta dal 1988.
«Lo stesso anno in cui ho conosciuto Jovanotti, le due pietre miliari della mia vita. E siamo sposati dal ’92».
Mapi scrive libri d’amore, lei è bravo a parlare d’amore?
«Io sono bravo a parlare di musica. Sul resto, sono timido. Mi vergogno a dire “ti amo” o “per sempre”, ho il diavoletto che mi domanda: sicuro? Come fai ad avere questa certezza? Ma c’è amore, abbiamo due figli e ormai Mapi mi conosce e questo mi consente di non avere più un’armatura».
In cosa consiste il segreto del talent scout?
«Sono dell’idea che una cosa è bella quando è fatta bene. Se un altro la sa fare meglio di te, devi aiutare lui a farla. Lo capii suonando la batteria coi Jokers, da ragazzo. Scoprii che, in mia assenza, la facevano suonare a un altro. Loro erano imbarazzati, a me venne di congratularmi con l’altro».
Nella sua biografia, «In diretta» di Baldini e Castoldi, Jovanotti dice che lei «agisce per amore, per vedere qualcuno contento».
«Alla fine, è come se avessi fatto il missionario: vivo della felicità altrui. Lorenzo è uguale: è felice se rende felice il pubblico».
Lei è il talent scout di tanti, il suo scopritore chi è stato?
«Mike Bongiorno: per Telemilano 58, doveva creare qualcosa che somigliasse a Discoring. Quando venne a cercarmi, riuscivo solo a pensare: ho davanti Mike Bongiorno. Alla fine, si arrabbiò: mi voleva suo erede nei quiz».
Poi, Mike benedisse come erede Gerry Scotti. Che ha scovato lei.
«Stava per andare in America e fare il pubblicitario, ma lo convinsi a venire a Radiodeejay. Da esteta, lo trovai bello perché era simpatico: anche ora, lo guardi e vedi l’amico, lo zio con cui vorresti andare a cena».
Con Amadeus come andò?
«Venne a presentarsi. Mi piacque la sua voce, gli chiesi se sapeva dove dormire a Milano e mi rispose che aveva un amico. Lo battezzai Amadeus e lo mandai in radio. Aveva sempre le occhiaie. Pensai che facesse vita notturna, invece, scoprii che si svegliava alle 4 tutte le mattine per venire da Verona a Milano e che l’amico che lo ospitava non esisteva».
Fabio Volo, panettiere, voleva cantare.
«Mi portò un disco, notai la sua verve, dissi: metto il disco solo se vieni a trasmettere».
Fiorello ha detto che faceva cavolate uniche e lei gli faceva lavate di testa speciali.
«Gli volevo bene. Al provino cantò Frank Sinatra e gli dissi che, se non svecchiava il repertorio, non l’avrei preso ».
C’è un suo erede?
«Francesco Facchinetti, bravissimo a scovare talenti sul web. Costruimmo la Canzone del capitano in 24 ore, ma gli dissi subito che era adatto al mio lavoro».
Lei perché ha lasciato la tv?
«A Sanremo, ho sentito una tale popolarità che mi sono chiesto: più di così che posso fare? Lì decisi di accendere Radio Deejay, nessuno credeva che ne avrei fatto la numero uno».
Ora ha ideato e organizzato il «FestivalWeb under 33» che va online su alivemusic.it dal 3 al 5 marzo. Perché in contemporanea con Sanremo?
«Perché così la gente ne parlerà di più e questo farà comodo ai giovani che concorrono. Ne ho selezionati io 60 dal web, poi ridotti a 24 con un contest su Instagram. Voglio dare una possibilità non a nuovi talenti, ma a chi ha già dimostrato di valere, magari su Youtube. In tv ogni anno si scoprono nuovi talenti ma quelli dell’anno prima ce li dimentichiamo».
Ad aprile avrà 69 anni, quanti se ne sente?
«Io sempre venti».
Fonte: correrie.it