Il compositore, ormai una star internazionale, sarà protagonista di un tour americano per presentare il suo album “Underwater”. Poi una nuova serie di concerti in Italia e a dicembre nove serate al Teatro Dal Verme di Milano con la sua opera “Winter Journey”

I suoi concerti fanno da anni il tutto esaurito perché Ludovico Einaudi (torinese, figlio del prestigioso editore Giulio) è ormai uno dei nostri pianisti e compositori più apprezzati nel mondo. Tra i suoi meriti quello di aver portato la musica colta fra la gente, grazie a un personalissimo percorso di ricerca musicale che lo ha condotto, dopo un periodo iniziale difficile, a esibirsi nei teatri più prestigiosi del mondo fra cui anche il Teatro alla Scala di Milano e la Royal Albert Hall di Londra. Fra i suoi più grandi successi Le Onde, I giorni, Una mattina, Divenire oltre a diverse colonne sonore per il cinema.

“Quando mi sento dire che la mia musica è rilassante, beh, un po’ mi offendo, perché collego questa idea del relax a momenti in cui il cervello si spegne. Invece la musica che piace deve mettere in moto energia, di un qualsiasi tipo. Perlomeno a me succede così. Già dire che una musica è ipnotica, cambia, dato che l’effetto ipnotico conduce, se non altro, a movimenti d’immaginazione”. Così riflette Ludovico Einaudi, valigia pronta per imbarcarsi in un mese di tour americano, dal Messico fino al Canada, dove porterà Underwater, l’album concepito durante il generale silenzio della pandemia.

“Un diario in dodici pezzi (ma tanti altri ne ho lasciati nel cassetto) frutto del lockdown globale che mi ha disintossicato dal pulsare eccessivo di una quotidianità inquinata, opprimente, consumistica, frettolosa, e ha dato ossigeno alla mia mente. Quel periodo è stato come abitare un paradiso terrestre. Nessuna scadenza. Nessun pensiero. Mi sono sentito libero come a diciott’anni, quando non sapevo che ne sarebbe stato del mio futuro”.

Al ritorno dal Nuovo Mondo, da fine luglio altro mesetto in giro per l’Italia (tra Fasano, Santa Marinella, le campagne toscane, la Romagna, Sicilia e Sardegna), e dal 3 al 18 dicembre nove serate al Teatro dal Verme di Milano, per celebrarne i centocinquant’anni, con in più, il 21, l’esecuzione in forma di concerto della sua opera Winter Journey.

Torniamo alla questione dei pezzi “rilassanti”. Che lo siano, lo affermano alcuni ammiratori nella serie podcast in lingua inglese Experience: the Ludovico Einaudi story, dove la voce del compositore-pianista e quella del narratore Joe Dempsie, l’attore britannico del Trono di spade, si intrecciano a testimonianze di amici, collaboratori, fan (tra cui Russel Crowe). Vi si racconta anche che alla miccia del suo successo internazionale ha dato fuoco un celebre dj radiofonico della Bbc che un giorno ha passato un suo brano tra le hit pop. “Pare che questo dj mi ascoltasse mentre scriveva. Lo aiutavo a concentrarsi. Quando mandò in onda i pezzi, i ragazzi inglesi stavano preparando gli esami. E anche loro trovarono che le mie melodie favorissero la concentrazione, toccando le stesse corde della canzoni pop ma con un afflato meditativo maggiore”.

Maestro Einaudi, essere inquadrato nel pop non la offende?
“Non credo che la mia musica possa aderire a etichette precise (c’è chi la chiama neoclassica, chi classica contemporanea, tutte definizioni approssimative) e mi colpisce che, solo grazie al fatto d’essere stata veicolata come pop, abbia scatenato un interesse sensazionale in un pubblico che altrimenti mai l’avrebbe avvicinata. È la stessa storia del “bosco verticale”: esistevano già prima architetture verdi, ma a Milano l’averne azzeccato il nome ne ha determinato la fortuna. D’altronde la gente ha sempre bisogno di dare un nome alle cose”.

Di certo lei riversa nei suoi pezzi una sensibilità ambientalista…
“Ammetto che spesso vi traspaia la mia visione della natura, dato che le idee di un autore non possono che inverarsi in ciò che fa. Tuttavia si tratta di un riflesso spontaneo, non ricercato a priori, poiché la musica si esprime innanzitutto attraverso la logica intrinseca che sta dentro le note. D’altro canto, però, il modo in cui il discorso musicale si sviluppa può rispecchiare le forme e i colori della natura. Per esempio, le tinte cangianti del cielo o le venature su un pezzo di legno possono essere trasferite nella forma di una composizione. Penso al mio Walk, dove lo sfondo alla melodia si ispira a come le foglie si muovono nell’aria: ogni micromotivo è una foglia smossa da una microvariazione, quasi che il soffio del vento le attraversasse”.

L’ispirazione capita o va cercata con fatica?
“In genere compongo di getto. È un istinto, qualcosa di irrazionale, un mistero che mi cattura e mi lega a quel che sto scrivendo. Dopo questa prima fase, comunque, tornisco a lungo i pezzi”.

I suoi pezzi nascono e vivono, in disco o in pubblico, sotto le sue dita. Ma quando li suonano altri, che impressione ne ricava?
“La mia musica ha anche un’esistenza indipendente da me. Sempre più ne proliferano esecuzioni in giro per il mondo, pure con arrangiamenti diversi. Certe volte sono letture intriganti, certe altre meno. Qualche esecutore mi invia le clip, per farmele conoscere. Va bene così: ogni autore deve prevedere che la sua produzione sia sottoposta a letture diverse”.

È un caso che ogni concerto della sua prossima tournée italiana abbia per set luoghi di particolare suggestione paesaggistica, tipo oasi, parchi rupestri, castelli?
“Già l’anno scorso, dopo il lockdown, avevo voluto integrare i miei spettacoli in spazi aperti, magari da raggiungere a piedi. Infatti mi interessa che si mediti sulla nostra relazione con la natura che ci attornia come pure con le espressioni culturali rappresentate da quanto l’uomo vi ha edificato. Perché più che mai, oggi, la natura merita atti d’amore da parte nostra. Troppo l’abbiamo sfruttata per fini economici”.

Il filo rosso dell’ambientalismo si dipana anche negli appuntamenti fissati al Teatro Dal Verme in dicembre.
“Sì. Da diversi anni vi tengo cicli di concerti legati a eventi collaterali di riflessione sul cambiamento climatico. Come la rassegna di cortometraggi d’autore Climate space, selezionati da Francesco Cara, in cui vengono coinvolti musicisti a sonorizzare dal vivo le immagini e le scuole si impegnano in laboratori. Quest’anno inoltre, su richiesta dell’orchestra dei Pomeriggi musicali che al Dal Verme ha casa, presenterò il mio Winter Journey sul tema delle migrazioni”.

Un omaggio al “Viaggio d’inverno” di Schubert?
“Rispetto alla mia partitura polifonica intessuta di richiami alla musica africana, su testo dello scrittore irlandese Colm Tóibín, le canzoni a una sola voce di Schubert stanno sottotraccia. L’argomento è simile, purtroppo sempre attuale: qualcuno – qui presento profughi africani, ma oggi potrei sostituirli con ucraini – lascia il proprio paese e giunge in una terra straniera, dove non si sente a suo agio perché è accolto con difficoltà. L’opera ha avuto tre recite a Palermo nell’ottobre 2019 con la regia di Roberto Andò. Era poi prevista al San Carlo di Napoli ma la pandemia l’ha impedito; dovrebbe arrivarci l’anno prossimo. A Milano sarà data senza scene e costumi. In questa veste risaltarnenno meglio i dettagli”.

Su di lei l’Africa esercita notevole suggestione…
“Sì, fin dal 2000, quando nel primo dei miei due viaggi in Mali, suonando con musicisti locali come Toumani Diabaté, Ali Farka Touré, Ballaké Sissoko. Il seme delle loro tradizioni, traghettato in Occidente attraverso rotte migratorie secolari, è conservato in tanti dei nostri strumenti, fra percussioni e arpe, nel blues, nella forma della variazione. Visitare l’Africa, per un musicista europeo, è come raggiungere il corso principale di un fiume risalendovi dagli affluenti”.

Passando a tutt’altro genere, pare che dei Måneskin lei non abbia troppa considerazione…
“Non è vero. Una volta un giornalista mi ha chiesto come mi sentissi a condividere, da italiano, la fama musicale planetaria con loro. Ho semplicemente risposto che facciamo cose diverse, imparagonabili: loro stanno riportando in vita il rock degli anni 70-80, che può sembrare nuovo a chi non l’ha vissuto allora”.

Canzoni italiane che la colpiscono?
“Una con tutte le carte in regola mi pare Brividi di Blanco e Mahmood. Ben fatti i suoi intrecci vocali per nulla scontati. Però non sono un buon giudice di pezzi sanremesi, dato che non seguo il festival. Ascolto, certo, tanta musica, ma trasversale, facendomi catturare da ciò che mi appassiona. Per dire, considero Jon Batiste un pianista grandissimo, autore di canzoni riuscite”.

Lei ha lavorato abbastanza per il cinema, da ultimo in “The father” e “Nomadland”, film pluripremiati ai Golden Globe e agli Oscar. Progetta di continuare?
“Certo. Sogno di fare un film a grande budget come Blade Runner o Interstellar per divagare dall’intimismo e scatenarmi tra sonorità potenti ed elettronica”.

Tra il suo pubblico ci sono tantissimi giovani. A cosa attribuisce questo successo in una fascia d’età di solito poco interessata alla musica “colta”?

Penso ci sia un alfabeto della musica che nasce da una matrice comune e col quale, trovando le giuste combinazioni, si può arrivare a chiunque.

Il suo è stato un percorso musicale fuori dagli schemi: formazione classica e contaminazioni folk, rock, pop. Un genere personalissimo…

Sì, quando nel 1996 è uscito Le onde (l’album che poi l’ha portato al successo in Inghilterra, ndr) in Italia mi avevano ordinato in tutto ottanta copie e all’inizio nei negozi non sapevano neppure dove collocarmi, se nel pop o nella musica da camera. Io ci ho sempre creduto percorrendo una strada che non c’era e poco alla volta mi sono creato un varco nel pubblico che ha cominciato a seguirmi e a comprare i miei dischi.

Quanto è difficile fare della buona musica in Italia?

Nel nostro Paese c’è una grande mancanza di cultura musicale e percorrere la strada di progetti  avventurosi risulta molto più difficile che all’estero. Oggi i miei concerti fanno il tutto esaurito ma ci sono voluti dieci anni e la mia musica è esplosa in Inghilterra, soltanto dopo in Italia. Eppure veniamo da una storia e un’arte che tutto il mondo ci invidia. La cosa triste è che non siamo più niente di ciò che è stato e oggi all’estero di noi si parla quasi soltanto per la spazzatura a Napoli o altri scandali.

Cosa bisognerebbe fare per migliorare la situazione?

Credo bisognerebbe partire dalla scuola. Se ogni mattina si cominciasse ascoltando per dieci minuti un bel brano musicale, di qualsiasi genere, e poi se ne discutesse tra insegnante e alunni, penso sarebbe un modo migliore e meno traumatico per i ragazzi di affrontare le lezioni. In più li aiuterebbe col tempo ad apprezzare meglio tutta la musica perché oggi i giovani purtroppo ascoltano soprattutto quella indotta da scelte commerciali più che culturali con il rischio che tutti ricevano le stesse cose in maniera standardizzata, senza punti di riferimento diversi e personali.

Li stimolerebbe anche ad avere una maggiore sensibilità nei confronti della vita?

Certo. La musica ti dà gli strumenti interiori che ti fanno capire tante cose, ti toglie la corazza che fa rimanere il cervello chiuso in una scatoletta. Apre i pori dello spirito, perché il nostro spirito, come i muscoli di chi va in palestra, va allenato. La musica riesce a toccare le sfere più intime della nostra interiorità ed è capace di affinare la nostra sensibilità per consentirci di andare oltre le idee e i sentimenti  scontati. Penso che la musica, e in generale l’arte, possano creare persone migliori e, cambiando le persone, cambiare di riflesso anche il mondo.

Non a caso molti dicono che la sua sia musica dell’anima… da dove arrivano queste note?

Il punto di partenza non è tecnico, ma tutto nasce dalle emozioni, dai sentimenti che provo. Per me la musica è il modo per mantenere una relazione con la mia interiorità, altrimenti non avrebbe senso. Da ragazzo ho sperimentato molte cose che mi avevano portato a creazioni in cui mi sembrava che io non ci fossi. Così ho percorso altre strade e pian piano ho capito come esprimere il mio animo e permettere alla musica di fare emozionare le persone, oltre che me stesso.

Come trova l’ispirazione per comporre?

È un percorso che viene da molto lontano, dal mio vissuto. Sono cresciuto con la musica e mi porto dentro l’immagine di me bambino steso sul letto a leggere i fumetti con in sottofondo le melodie, che mi incantavano, del pianoforte suonato da mia madre. Credo che tutti noi abbiamo una storia, ricordi, emozioni che però durante la vita tendiamo un po’ a dimenticare, complici i problemi e a volte la difficoltà dell’esistenza. La musica può aiutare a riaccendere i ricordi, a ritrovare quel cordone ombelicale che ci lega al passato, all’infanzia. Ecco, la mia ispirazione nasce da questo. Si tratta poi di trovare le chiavi giuste per raccontare questo mondo interiore. Altre volte invece la mia creatività nasce da altro: viaggi, incontri, natura, tutto ciò che mi circonda. Il mondo è pieno di specchi in cui la nostra anima può riflettersi.

Fra i suoi estimatori ci sono moltissime donne. Come se lo spiega?

Forse perché la donna è più libera dal punto di vista mentale, percepisce il mondo con meno barriere intellettuali e capta la libertà di pensiero che vien fuori dalle mie note. La donna abbraccia sempre il mondo in una maniera più diretta ed è più aperta al sentimento rispetto all’uomo che invece oppone maggiori resistenze al contatto con il proprio mondo interiore.

Secondo lei cos’ha la musica in più o in meno rispetto alle altre forme d’arte?

Forse è la cosa più vicina all’amore. Ti eleva. Personalmente mi dà le emozioni più vicine a quelle che provo quando mi sento innamorato. Anche quando leggi un romanzo vivi una realtà parallela, entri nei personaggi, in quei luoghi, ma secondo me la musica ti ci porta con ancora maggiore profondità.

Quanto secondo lei la musica può influire sul benessere psicofisico delle persone?

Penso sia capace di proiettarci in un’altra dimensione, in una sorta di realtà virtuale che può dare tanti benefici. Sono stati fatti molti  esperimento sugli animali, con le mucche in particolare. E si è scoperto che facendo ascoltare loro Mozart producevano un latte migliore. Di sicuro il suono produce endorfine che influiscono positivamente sull’umore e sul nostro benessere.